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UNA RECENTE SENTENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE FORNISCE CHIARIMENTI SUL REATO DI VIOLENZA SESSUALE E SULLA VALUTAZIONE DELLA ATTENDIBILITA’ DELLA VITTIMA.

E’ necessario valutare la credibilità delle affermazioni riportate nella denuncia da parte di una vittima di violenza sessuale?

La Corte di Cassazione penale ha fornito alcune interessanti precisazioni in merito.

In particolare, i giudici con la sentenza n. 50916 del 08 novembre 2017 (https://drive.google.com/open?id=12CU4vYuyrVFE2Hi3Rh3XbYEWeqyvkREO ) si sono soffermati sulla valutazione di attendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa.

Secondo la Cassazione, il giudice deve indagare circa la credibilità della vittima verificando concretamente la reale terzietà della stessa, soprattutto quando entrano in gioco interessi che confliggono con quelli dell’imputato.

In breve la ricostruzione dei fatti che hanno originato il procedimento penale in questione.

La Corte di Appello di Lecce aveva confermato la condanna di un uomo imputato per il reato di violenza sessuale.

L’uomo , stante la ricostruzione della vittima, avrebbe costretto la sua ex compagna a subire con violenza degli atti sessuali.

Ritenuta ingiusta la decisone all’esto del secondo grado di giudizio, l’imputato proponeva ricordo in Cassazione nell’intento di ottenere l’annullamento della sentenza  a lui sfavorevole.

Infatti, secondo l’imputato, la Corte di appello avrebbe fondato la propria decisione di condanna sulla scorta delle dichiarazioni rese dalla persona offesa che, a suo avviso, non erano credibili: in primis dalle numerose contraddizioni  e ritrattazioni della donna e degli stessi testimoni; in secundis dalla presenza , in atti, di una e-mail con cui l’imputato chiedeva alla donna “di lasciarlo in pace”.

Sempre secondo il ricorrente, la donna avrebbe avuto anche un interesse economico nella questione; l’imputato, infatti, aveva chiesto al fratello della vittima il pagamento dei propri compensi per l’attività professionale svolta in suo favore e questi, al fine di sottrarsi all’adempimento, l’aveva minacciato “di denunciarlo penalmente per i fatti occorsi alla sorella se egli avesse insistito nelle sue richieste”.

La Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto di dare ragione all’imputato, accogliendone il ricorso poiché la sentenza impugnata presentava “un’evidente opacità argomentativa” in merito alla responsabilità dell’imputato, desunta dall’attendibilità della persona offesa e dalle disposizioni rese dai suoi familiari.

La Corte ha definito “del tutto singolare sotto il profilo temporale” la circostanza secondo cui la persona offesa aveva denunciato l’imputato “a ben sei mesi di distanza dal reato in contestazione”, ma dopo “nemmeno un mese” dalla richiesta di pagamento avanzata dall’imputato nei confronti del fratello della vittima.

Pertanto restava da chiarire il rapporto tra la querela presentata dalla persona offesa e il credito vantato dall’imputato nei confronti del fratello della stessa.

 

La Cassazione ha quindi precisato che, se è vero che la deposizione della persona offesa “è astrattamente idonea a fondare di per sé sola (…) la prova del fatto”, è pur vero che il giudice deve indagare la credibilità della stessa.

Ciò deve avvenire verificando concretamente la “reale terzietà” della medesima.

La Corte , in sintesi afferma il seguente principio: “se è ben vero che la deposizione della p.o. è astrattamente idonea a fondare di per se sola, senza cioè dover essere assistita da elementi esterni di riscontro, la prova del fatto rappresentato, postulando la mancata previsione da parte del legislatore di alcuna deroga della capacità a testimoniare della p.o. il riconoscimento implicito che la stessa non sia considerata di per sé portatrice di un interesse inquinante, trattasi ciò nondimeno di una presunzione “juris tantum” che impone, in ciò sostanziandosi il maggior rigore richiesto dalla giurisprudenza nell’indagine della sua credibilità oggettiva e soggettiva rispetto a quella cui vengano sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone, una concreta verifica della reale terzietà proprio quando entrano in gioco interessi astrattamente confliggenti con quelli dell’imputato”.

Nel caso di specie, invece, la Corte di Appello aveva “omesso di valutare il sottostante interesse economico da cui avrebbe potuto essere teoricamente animata la vittima”.

Un interesse ritenuto decisivo per la Corte di Cassazione, ai fini della decisione circa la responsabilità dell’imputato tanto da accogliere il ricorso, annullando la sentenza impugnata e disponendo  il suo rinvio alla Corte di Appello.

 

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