La decisione della Quarta sezione della Suprema Corte di Cassazione contenuta nella sentenza n. 24068 del 15 febbraio 2018 che si vuole sottoporre all’attenzione trae origine dal seguente caso.
A seguito di incidente stradale, il signor V. veniva ricoverato presso l’ospedale ove veniva sottoposto a visita ortopedica.
Il giorno successivo, il medico specialista in ortopedia, dimetteva il paziente con applicazione di un collare per “policontusione con interessamento del rachide cervicale”.
Alcuni giorni dopo, il paziente si ripresentava presso la struttura sanitaria per complicanze alla mano ed al braccio.
Veniva nuovamente visitato dallo specialista, il quale richiedeva una consulenza chirurgica all’esito della quale venivano consigliate ulteriori indagini tra cui un eco doppler dei vasi del collo.
Il paziente lasciava quindi l’ospedale.
La sera stessa quest’ultimo giungeva nuovamente al pronto soccorso in stato confusionale.
Il neurologo consultato consigliava una RM celebrale e il ricovero del paziente.
Il medico del pronto soccorso, nonostante le insistenze dei familiari, non procedeva al ricovero per carenza di posti ed il signor V. decedeva il giorno successivo.
Dagli atti di causa veniva accertato che la morte era riconducibile all’alterazione della parete dell’arteria carotide interna sinistra, causa della formazione di un trombo ectasico, che si sarebbe potuta evitare con la tempestiva somministrazione di una terapia antiaggregante e l’applicazione di uno stent carotideo.
Venivano pertanto indagati per omicidio colposo i due medici: il medico specialista in ortopedia, per non essersi attivata per il ricovero del paziente e l’esecuzione degli esami consigliati dal neurochirurgo, ed il medico del pronto soccorso, per aver disposto le dimissioni del paziente nonostante la contraria indicazione nel neurochirurgo.
Entrambi i medici venivano condannati in primo grado. La Corte di appello, in parziale riforma, assolveva il medico specialista e confermava la condanna per il medico del pronto soccorso.
Avverso tale decisione proponevano ricorso le parti civili e la difesa del medico del p.s. .
La suprema Corte nella sentenza in oggetto analizza la problematica della posizione di garanzia assunta del medico nei confronti del paziente che sia affidato alle sue cure. In particolare il problema si pone, qualora si consideri una struttura sanitaria complessa come quella di un ospedale, in relazione al medico al quale venga solamente inviato il paziente per un consulto (come nel caso dell’imputata, l’ortopedico) se si instauri un “rapporto terapeutico” e quindi l’assunzione di una posizione di garanzia con le conseguenti responsabilità.
Nella sentenza in oggetto, la Corte analizza in maniera distinta la posizioni dei due imputati.
Con riferimento alla posizione del medico del pronto soccorso, i Supremi giudici ritengono come debba essere confermata la sua responsabilità in quanto: “il medico che, sia pure a titolo di consulto, accerti l’esistenza di una patologia a elevato e immediato rischio di aggravamento, in virtù della sua posizione di garanzia ha l’obbligo di disporre personalmente i trattamenti terapeutici ritenuti idonei a evitare eventi dannosi ovvero, in caso d’impossibilità di intervento, è tenuto ad adoperarsi facendo ricoverare il paziente in un reparto specialistico, portando a conoscenza dei medici specialistici la gravità e urgenza del caso ovvero, nel caso di indisponibilità di posti letto nel reparto specialistico, richiedendo che l’assistenza specializzata venga prestata nel reparto dove il paziente si trova ricoverato specie laddove questo reparto non sia idoneo ad affrontare la patologia riscontrata con la necessaria perizia professionale. Ciò in quanto il medico chiamato a consulto è pur sempre gravato degli stessi doveri professionali del medico che ha in carico il paziente presso un determinato reparto, non potendo esimersi da responsabilità adducendo di essere stato chiamato solo per valutare una specifica situazione.”
Tuttavia, effettuata tale valutazione, la Corte dichiarava però estinto il reato contestato al medico del p.s. per intervenuta prescrizione.
Diversa, invece, la posizione del medico specialista in ortopedia, coinvolta dal pronto soccorso per un consulto.
La stessa infatti, da una parte non aveva riscontrato patologie di tale gravità da far scattare l’obbligo di attivarsi per le cure del caso e non era tenuta alla gestione diretta del paziente che competeva certamente ai medici del pronto soccorso, che avrebbero dovuto attivarsi una volta ricevute le risultanze degli accertamenti.
La dottoressa, però, aveva anche a sua volta, autonomamente, richiesto un’ulteriore consulenza ad un neurologo, senza raccordarsi con il pronto soccorso che aveva in quel momento in gestione il paziente.
Con tale comportamento, quindi, si sarebbe ingerita nella direzione del caso, “assumendo” una posizione di garanzia e dovendosi di conseguenza preoccupare degli esiti di tale consulenza e raccordarsi con il pronto soccorso per le valutazioni del caso, cosa che invece non avvenne.
Precisa, infatti, la Corte che “ai fini dell’affermazione di responsabilità penale dei medici operanti – non in posizione apicale – all’interno di una struttura sanitaria complessa, a titolo di colpa omissiva, è priva di rilievo la mera instaurazione del c.d. rapporto terapeutico, occorrendo accertare la concreta organizzazione della struttura, con particolare riguardo ai ruoli, alle sfere di competenza ed ai poteri – doveri dei medici coinvolti nella specifica vicenda”.
La Corte, pertanto, annullava la sentenza impugnata limitatamente alla posizione dell’ortopedico ai soli effetti civili, con rinvio al competente giudice civile in grado di appello.