La sentenza della Suprema Corte di Cassazione, che si vuole portare all’attenzione, esamina un caso di stalking.
In particolare, si tratta di un caso di atti persecutori nel quale era stata applicata la misura cautelare del divieto di avvicinamento all’uomo che ripetutamente inviava messaggi dal contenuto minaccioso all’ex moglie, la quale aveva intrapreso una nuova relazione.
I fatti del processo riguardavano sempre e solo minacce e molestie commesse con l’utilizzo dei social network (Facebook) o di applicazione di chat (Whatsapp) che, tuttavia, non hanno mai trovato riscontro nella realtà; si tratta di atti persecutori di cui veniva accusato l’imputato che, tuttavia, non erano mai stati compiuti se non in una sola circostanza risalente a tempo prima che venisse applicata la misura cautelare.
Secondo i giudici di Piazza Cavour il ricorso dell’imputato è inammissibile e i messaggi minacciosi ricevuti dalla persona offesa hanno certamente causato a quest’ultima un evidente stato d’ansia e di timore (requisito fondamentale nel reato di stalking di cui all’art. 612 bis c.p.) e a nulla rileva il fatto che suddetti comportamenti tenuti dall’imputato non si siano di fatto concretizzate.